Negli autori italiani transculturali emersi nell’ultimo quarto di secolo, il tema del cibo e della convivialità è un fil rouge dalle molte valenze e potenzialità semantiche. Facendosi spesso carico di significazioni affermative, di auto-rappresentazioni identitarie espresse ad esempio in autrici come Christiana de Caldas Brito e Carmine Abate, la narrazione di eventi culinari talvolta sfociano, al contrario, nel racconto di una perdita, o addirittura in quello di una dis-integrazione identitaria sullo sfondo una società d’arrivo, ma anche di partenza, che difficilmente riesce a seguire il percorso evolutivo del migrante. Sul tema del cibo possono quindi convergere non solo il racconto simbolico di sé, ma anche la narrazione dell’altro, del suo cibo “indigesto”, espressione di una società non sempre accogliente e talvolta in contrasto con le corde più intime del soggetto migrante, legate ad una diversità religiosa e culturale, come mostrano i testi narrativi di Amara Lakhous e Tahar Lamri, e come confermano persino scrittrici e scrittori delle cosiddette seconde generazioni (Jadelin Gangbo, Igiaba Scego, Gabriella Kuruvilla). Eppure, rispetto a tali narrazioni che fanno del cibo un catalizzatore del contrasto tra un’appartenenza sognata e immaginata, e una dis-appartenenza invalicabile, vi è una terza via, percorsa dall’immaginario di autori transculturali come Lily-Amber Laila Wadia e, ancora, da Christiana de Caldas Brito: si tratta della visione del cibo come fenomeno di creolizzazione culturale, della potenzialità non solo di mettersi tutti insieme a tavola per consumare i nostri “piatti tipici”, bensì di scambiare ingredienti e di pasticciare ricette, creando un “cibo comune” alla pari di un discorso culturale comune, ben provocatorio per le nostre papille gustative, ma esperienza da sperimentare.
“Il cibo in valigia. Dal piatto tipico al pasticcio transculturale. Nuove narrazioni italiane a confronto”
MOLL N
2014-01-01
Abstract
Negli autori italiani transculturali emersi nell’ultimo quarto di secolo, il tema del cibo e della convivialità è un fil rouge dalle molte valenze e potenzialità semantiche. Facendosi spesso carico di significazioni affermative, di auto-rappresentazioni identitarie espresse ad esempio in autrici come Christiana de Caldas Brito e Carmine Abate, la narrazione di eventi culinari talvolta sfociano, al contrario, nel racconto di una perdita, o addirittura in quello di una dis-integrazione identitaria sullo sfondo una società d’arrivo, ma anche di partenza, che difficilmente riesce a seguire il percorso evolutivo del migrante. Sul tema del cibo possono quindi convergere non solo il racconto simbolico di sé, ma anche la narrazione dell’altro, del suo cibo “indigesto”, espressione di una società non sempre accogliente e talvolta in contrasto con le corde più intime del soggetto migrante, legate ad una diversità religiosa e culturale, come mostrano i testi narrativi di Amara Lakhous e Tahar Lamri, e come confermano persino scrittrici e scrittori delle cosiddette seconde generazioni (Jadelin Gangbo, Igiaba Scego, Gabriella Kuruvilla). Eppure, rispetto a tali narrazioni che fanno del cibo un catalizzatore del contrasto tra un’appartenenza sognata e immaginata, e una dis-appartenenza invalicabile, vi è una terza via, percorsa dall’immaginario di autori transculturali come Lily-Amber Laila Wadia e, ancora, da Christiana de Caldas Brito: si tratta della visione del cibo come fenomeno di creolizzazione culturale, della potenzialità non solo di mettersi tutti insieme a tavola per consumare i nostri “piatti tipici”, bensì di scambiare ingredienti e di pasticciare ricette, creando un “cibo comune” alla pari di un discorso culturale comune, ben provocatorio per le nostre papille gustative, ma esperienza da sperimentare.File | Dimensione | Formato | |
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